LA CARBON TAX EUROPEA
Dal 2023 l’Ue alzerà la pressione ambientale sui Paesi da cui importa, per proteggere il proprio mercato in piena transizione ecologica. In effetti l’UE ha concepito questa imposta per proteggere l’industria europea da quei competitor esterni che non sono soggetti ai rigidissimi obiettivi climatici dell’Unione. In pratica non sarà possibile avvalersi di un fornitore non-Ue più inquinante senza incorrere nel sovrapprezzo, e i produttori extraeuropei non potranno inondare il mercato di prodotti meno cari ma creati con meno attenzione per l’ambiente. La Commissione stima che porterà €9 miliardi all’anno nelle casse di Bruxelles. I proventi di questa tassa finanzieranno il piano Next Generation EU.
La prospettiva di una tassa sul carbonio modellata sulle ambizioni europee ha già fatto drizzare i capelli a una moltitudine di partner commerciali dell’Ue: Cina, Brasile, Sudafrica e India hanno già parlato di misure “discriminatorie”.
Anche l’America sembra aver parecchio da ridire. Durante il suo tour europeo a marzo Kerry aveva chiarito che gli Stati Uniti non intendono emulare l’Ue per il momento. E aveva anche chiesto di ritardare il progetto fino a dopo la conferenza COP26 di novembre, a Glasgow.
Almeno inizialmente il Cbam verrebbe imposto solo su certi settori, tra cui acciaio, alluminio, cemento e fertilizzanti.
Bruxelles, comunque, intende andare avanti. Però ha dichiarato che il Cbam sarà preparato in modo da colpire “chirurgicamente” i Paesi che non hanno aderito all’obiettivo zero emissioni nette entro il 2050.
Gli ostacoli da superare a livello europeo sono relativi alla reticenza di alcuni Paesi particolarmente dipendenti dall’export, come la Germania, che difatti non è tra i firmatari del documento programmatico.
ll Carbon Border Adjusment Mechanism è parte integrante del piano per il clima presentato dalla Commissione il 14 luglio scorso.
La carbon tax non verrà applicata ai Paesi facenti parte dell’Unione doganale dell’UE ovvero Islanda, Norvegia, Liechtenstein e Svizzera e nemmeno ai territori europei oltreoceano. Lo stesso discorso non vale invece per Stati Uniti e Regno Unito, ai quali non verranno fatti sconti senza un adeguamento delle proprie politiche commerciali. Il nuovo inquilino della Casa Bianca ha subito disposto il rientro degli Stati Uniti negli Accordi di Parigi sul clima dando un chiaro segnale di contrapposizione rispetto all’Amministrazione precedente.
Il futuro meccanismo di adeguamento del carbonio alla frontiera è parte delle ‘risorse proprie’ inserite nel bilancio europeo e dovrà essere usato per “combattere il riscaldamento globale”.
L’uso che l’Ue deciderà di fare del ricavato di questo meccanismo sarà importante per determinarne la compatibilità con le regole internazionali.
Il vicedirettore del Wto ha tuttavia avvertito che, se la carbon border tax dovesse cambiare l’assetto competitivo di un determinato settore industriale o compagnia, allora sorgerebbero dei problemi.
Questa preoccupazione è condivisa anche da Pascal Canfin, che presiede la commissione Ambiente al Parlamento europeo.
Apparentemente potrebbe sembrare una decisione che va incontro alle esigenze immediate che son quelle di abbassare il tasso di CO2 ma senza tener conto che un adeguamento degli altri paesi potrà avvenire solo in tempi più lunghi di quelli previsti per raggiungere l’obiettivo di emissioni zero entro il 2050. Ancora, dal punto di vista commerciale, trattandosi di un mercato globale, non si comprende come avverrà il controllo sulle merci. Di fatto l’UE rischia di restare isolata rispetto al resto del mondo, visto che i paesi che si affacciano oggi sul mercato globale sono ben lontani dall’obiettivo fissato dall’UE.
La politica sanzionatoria ideata dall’UE rischia di fallire, in un mondo che non ha a cuore la salute del pianeta. E allora bisogna cambiare strategia a partire dalla consapevolezza che una parte della produzione mondiale, quella alimentare, viene avviata al macero. Dunque, un primo risparmio energetico può essere ottenuto da un rallentamento della produzione. Il principio cui bisogna ispirarsi è che la produzione dei beni deve essere collegata con i reali bisogni dell’umanità per cui c’è bisogno di un gigantesco cambiamento di rotta. Fino ad oggi, nel nostro sistema economico, il profitto rappresenta l’obiettivo principale per il produttore, cui interessa di produrre merci che rendono un tasso di profitto maggiore rispetto a quello delle altre merci: quindi, si produce in base alle prospettive di aumentare il PIL che racchiude un maggior profitto per il produttore, abbondonando quelle lavorazioni che non riescono a produrre un profitto tale per poter soddisfare le aspettative del produttore. Bisogna invertire la prospettiva, nel senso che occorre partire dai bisogni dell’uomo scegliendo i beni necessari per migliorare la sua vita e quella degli altri. Produrre meno ma produrre meglio. Se i paesi lavorano in questa prospettiva, ebbene potremo ancora sperare di salvare il pianeta. Diversamente, non è improbabile che, così come è comparsa la vita su questo pianeta, saremo noi con la nostra scellerata politica economica a dichiararne la fine.
Novembre 2021