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PUNTO E A CAPO

L’UE nel 60° anniversario della sua nascita, rischia di dissolversi clamorosamente perdendo di vista il suo obiettivo storico: costruire una federazione di Stati europei decisi a marciare assieme nella prospettiva della nascita di uno Stato federale, gli Stati Uniti d’Europa. Era questo l’obiettivo indicato dai fondatori dell’allora MEC. Purtroppo, la UE nel corso della sua storia, ha già conosciuto diversi momenti di crisi, che ne hanno messo in discussione la esistenza. La decisione della Gran Bretagna di uscire dalla UE ha fatto crescere il potere di partiti nazionalisti che propongono l’uscita dall’UE con l’illusione che questa lacerazione possa servire a restituire ai paesi aderenti la propria sovranità, ossia la possibilità di decidere da soli del proprio futuro. Politica demagogica e pericolosa perché farebbe ritornare alla ribalta le mai sopite tendenze – all’interno di tutti i paesi –di difesa dei propri interessi nazionali, economici e politici. Quale potrebbe essere l’antidoto per bloccare questa eventuale emorragia? Quello di accrescere i poteri dell’UE, soprattutto politicamente, se è vero che in questi ultimi decenni di vita dell’UE si è sempre lamentato che le decisioni politiche sono state sempre prese dai singoli Stati, senza poter contare su una linea politica uniforme nei diversi settori passando dal sistema della sicurezza a quello della difesa militare e a quello della politica migratoria. Lo strumento, dunque, era quello di concentrare maggior potere nelle istituzioni dell’UE, in primo luogo la Commissione e poi il Consiglio, anche se all’interno del secondo – di cui fanno parte i capi dei governi di tutti i paesi aderenti- si è rischiata la paralisi quando si sono affrontate questioni sulle quali non c’era unanimità. Così è avvenuto – per fare un esempio – per la questione dei migranti – che divide ancora oggi gli Stati membri che non hanno trovato ancora un accordo per la ricollocazione dei migranti sul territorio di tutti i paesi alcuni dei quali  non accettano il sistema delle quote paralizzando così la politica dell’Unione. Difronte a queste difficoltà, ci si aspettava, soprattutto da parte dei paesi fondatori in questo momento di accelerare il processo di integrazione politica e istituzionale, in modo da veder crescere la fiducia nelle istituzioni europee compromessa spesso da una resistenza dei singoli governi. Ebbene, qualche settimana fa, come ricordavamo, la Cancelliera Merkel si era fatta promotrice di “una Europa a due velocità” ritenendo che si dovesse accelerare il processo di integrazione, a partire da alcuni settori, senza che gli altri paesi si sentissero obbligati a fare la stessa scelta.  In effetti, per spiegare meglio il progetto, la Merkel dichiarava che con questo non si volevano creare differenze tra i singoli Stati- come era sembrato – con la creazione di Europa di serie A ed un’altra di serie B ma di far crescere, al di là degli obblighi nascenti dai Trattati, una maggiore collaborazione fra singoli Stati in settori quali quello della sicurezza o dello sviluppo industriale. Ebbene alle parole non corrispondono i fatti. In vista del vertice europeo e in vista del 60° anniversario del Trattato di Roma, lunedì 6 u.s. a Versailles si riunivano i capi di Governo di quattro Stati: la Germania, la Francia, l’Italia e la Spagna, senza neppure la presenza del Presidente della Commissione Juncker, per ribadire che “spetta a noi dire cosa vogliamo fare con gli altri” come dichiara il Presidente Hollande mentre la Merkel ribadiva che “E’ ora di scelte sul terreno economico e sociale”. Belle parole che però contrastano con la novità di questo vertice che vorrebbe parlare a nome dell’UE. Errore strategico che ha già sollevato le critiche dei paesi europei che hanno costituito il gruppo di VISEGRAD (Repubblica Ceca, Polonia, Repubblica Slovacca e Ungheria) i quali si sono dissociati da questa iniziativa. Certo, se si vuole accelerare il processo di integrazione, ebbene questo era il metodo peggiore per dare un segnale di cambiamento. Primo, perché dovrebbe essere l’UE a prendere l’iniziativa. Al contrario proprio Juncker – capo della Commissione – non era presente all’incontro. Secondo, perché si conferma l’ipotesi che le decisioni pubbliche che riguardano l’UE sono prese da un gruppo di Stati egemoni. Questo è un segnale di debolezza dell’UE: fin quando saranno i singoli Stati a far prevalere i propri interessi su quelli europei, ebbene aumenterà il divario fra i paesi membri. Se si può fare un paragone, prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, si ebbe un congresso a Monaco cui parteciparono appunto i paesi egemoni in quel periodo che decisero del futuro dell’Europa, in nome anche dei paesi assenti, per scongiurare la guerra. Tutti ritornarono a casa, dichiarando ipocritamente di aver salvato la pace senza sapere che fu quello l’inizio della guerra. Ebbene, oggi questi paesi hanno offerto, di sé, dei propri capi, dei propri uomini politici, un’immagine ben poco europeista, che potrebbe portare alla scomparsa dell’UE che resta oggi – malgrado tutti i limiti – l’argine per fermare la piena, salvo un opportuno ripensamento da parte dei paesi fondatori che si dovranno far carico di discutere le soluzioni proposte insieme a tutti gli altri paesi aderenti, senza assumere più atteggiamenti di questo tipo che possono scatenare l’opposizione degli altri membri dell’UE.

Marzo 2017

(Avv. E. Oropallo)

PUNTO E A CAPO

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