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La lunga agonia della Brexit

Siamo a poco più di un mese dal 29 marzo, data prevista per l’uscita della Gran Bretagna dall’UE e la trattativa è ancora in alto mare per cui si può ipotizzare che, se non viene confermato l’accordo sottoscritto a novembre, l’unica soluzione sarebbe un        “no deal” cioè un’uscita senza alcun accordo. Si tratterebbe di un’autentica catastrofe per entrambe le parti ma soprattutto per la Gran Bretagna il cui governo, dal momento in cui il popolo britannico decise di uscire dall’UE, non è riuscito ancora a trovare un accordo. Anzi, l’accordo era cosa fatta nel novembre scorso ma, dopo la sconfessione dello stesso da parte del Parlamento inglese, la May decideva di tornare a Bruxelles per chiedere “modifiche al controverso “backstop””, il regime speciale per l’Irlanda del Nord che dopo la Brexit continuerebbe a restare in una sorta di mercato unico con la confinante Repubblica d’Irlanda (che è membro dell’UE) – fino a quando non si troverà una soluzione definitiva. Il governo inglese, invece, vorrebbe mettere un limite temporale al basckstop, o in alternativa, avere la possibilità di rescissione unilaterale dell’accordo o in alternativa istituire controlli ultratecnologici della frontiera. Com’era prevedibile, l’UE, ha respinto ogni ipotesi alternativa ribadendo la validità dell’accordo già sottoscritto in novembre. Una bella gatta da pelare per la May che si era presa la responsabilità di sottoscrivere l’accordo, senza prima aver consultato il governo e neppure il Parlamento che avrebbe dovuto approvarla. Neppure la May si è detta disponibile a discutere il piano alternativo proposto dal capo dell’opposizione Corbyn perché questo significherebbe la fine per il suo partito. Ma se anche così fosse, in quanto la vittoria dell’opposizione segnerebbe il crollo del partito conservatore, perché continuare a tenere una linea dura che appare davvero incomprensibile alla luce delle catastrofiche previsioni in caso di “no deal”? A fine febbraio il premier inglese si incontrerà ancora una volta con i responsabili dell’UE, anche se vi sono ben poche speranze, che sia rinviata di qualche mese l’uscita dall’UE per le imprevedibili conseguenze che si avrebbero sul piano istituzionale in quanto, finché non è concluso tutto il percorso previsto dall’art. 50 del Trattato di Lisbona, la Gran Bretagna è ancora parte dell’UE conservando il diritto – il popolo inglese – di partecipare alle elezioni europee. Un’ipotesi questa che potrebbe condizionare l’esito delle votazioni e influire sulla composizione del futuro Parlamento, andando a dare man forte al voto dei paesi sovranisti. Anche perché Farage – già leader dell’Ukip – che vincendo nel 2014 le elezioni europee, costrinse il premier Cameron a fare il referendum da cui uscì con le ossa rotte e costretto a dare le dimissioni – ha fondato un nuovo partito che non a caso si chiama Brexit Party – chiarendo che il suo obiettivo sarà quello di ottenere una Brexit hard senza compromessi, meglio anche con un “no deal” che spaventa tutti. C’è da aggiungere che, nel marasma in cui si trova oggi il governo inglese, se non ci sarà un nuovo accordo, in molti settori produttivi si verrà a creare un caos operativo con enormi danni finanziari e con riflessi anche sul piano occupazionale. La Nissan, che ha il suo stabilimento a Sunderland, la più grande fabbrica di automobili britannica, già prima del referendum, ebbe a dichiarare che avrebbe spostato la produzione nel continente perché esporta in Europa l’80% delle auto prodotte e non potrebbe continuare a farlo se ci fossero stati dazi da pagare. Promessa che ha cominciato a mantenere annunciando il trasferimento della produzione del suo fuoristrada X-Trail in Europa da una città, come Sunderland, operaia e laburista che paradossalmente ha votato in maggioranza per l’uscita del paese dall’UE. “E’ il segno più chiaro del danno causato dalla Brexit alla nostra economia e del fatto che sarà la classe operaia a pagarne le conseguenze” commenta la deputata laburista Bridget Phillipson. Ma c’è un altro settore, quello del trasporto aereo, dove si potranno avere grossi problemi se l’uscita non fosse accompagnata da un chiaro accordo delle parti. Senza accordo, infatti, la Gran Bretagna diventerà un paese extra-comunitario. I voli tra l’UE e i paesi extra-comunitari sono regolati da accordi bilaterali che designano le compagnie aeree autorizzate ad effettuare i voli tra i due paesi. Accordo che allo Stato non esiste ma c’è di più ed è che l’UE, a nome di tutti i membri dell’Unione, ha sottoscritto accordi bilaterali di traffico con paesi extra-comunitari. Motivo per cui la Gran Bretagna, dal momento in cui abbandona l’UE, non solo dovrà sottoscrivere un accordo con l’UE ma lo dovrà sottoscrivere anche con gli altri paesi che non fanno parte dell’UE, avendo perduto il suo status di paese europeo. Non è difficile immaginare il caos e gli enormi danni economici che si produrrebbero, senza considerare i riflessi negativi sull’occupazione. Il presidente di Ryanair – compagnia irlandese – aveva ben chiara questa prospettiva per cui aveva chiesto di votare in favore di “remain”. Se non ci sarà accordo, paradossalmente Ryanair potrà continuare ad operare all’interno dell’UE ma potrebbe essere esclusa dalla possibilità di effettuare voli all’interno della Gran Bretagna. Più delicata ancora la posizione di Easyjet che ha annunziato di voler spostare la sua sede legale all’interno dell’UE. E già oggi, intervenendo nella trattativa per acquistare una quota di partecipazione dell’Alitalia, dimostra chiaramente quale possa essere il passo successivo perché ormai il 29 marzo è vicino. Se Londra uscirà, dunque, dall’UE senza accordi, le soluzioni si potrebbero trovare a cominciare dalla firma di nuovi accordi bilaterali tra la Gran Bretagna e i singoli Stati membri dell’UE oppure con tutta l’UE ma questo comporterebbe tempi lunghi paralizzando il traffico aereo. Il tempo ormai stringe e non lascia più spazio ad una politica fatta di attese e di schemi mentali superati da un mondo in cui sono radicalmente modificati gli equilibri politici. Il fenomeno Brexit, a detta di qualche autorevole commentatore, “si può spiegare con la persistente convinzione che anche in un mondo dominato da attori di dimensione politico-economico continentale, l’isola britannica possa cavarsela al meglio da sola come all’epoca di Sir Francis Drake e di Elisabetta, la prima (Massimo Riva su La Repubblica)”. Non può l’UE assecondare questa inclinazione e non sembra che voglia farlo perché – scrive ancora Riva – “offrirebbe sponda alle miserevoli pulsioni sovraniste di quei paesi europei che, a differenza di Londra, non hanno neppure l’attenuante di un retaggio imperiale”. Un punto questo irrinunciabile per l’UE che potrebbe, in caso di rinvio della data fissata per l’uscita, far sollevare la testa ai sovranisti di casa nostra e di altri paesi dell’UE che irragionevolmente continuano a contestare l’UE e le sue istituzioni, che non sono disposti ad accettare le regole scambiando spesso il principio della sovranità nazionale – espressione del potere democratico – con il sovranismo, fenomeno che apre la strada all’autoritarismo e alla democrazia illiberale.

Febbraio 2019

La lunga agonia della Brexit

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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