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MODALITA’ DI CALCOLO DELLO SPAZIO MINIMO IN CARCERE

Vista la persistente tendenza delle Corti d’Appello di non adeguarsi ai parametri indicati dalla Corte EDU, ancora una volta la Corte di Cassazione (I° Sez. Pen. sent. n. 52819/16) depositato il 13.12 u.s., è dovuta intervenire per chiarire quale sia il corretto calcolo dello spazio da destinare al detenuto per non incorrere in una violazione dell’art. 3 della Convenzione europea che vieta la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. Nel caso di specie il Tribunale di Sorveglianza di Perugia aveva respinto il reclamo di un detenuto che contestava le condizioni carcerarie provocate dal sovraffollamento.                                                                              Il Tribunale aveva ritenuto che nel calcolo dello spazio minimo destinato al singolo occupante andava incluso il letto. Inoltre, il Tribunale compensava la carenza di acqua calda in cella con la doccia esterna con acqua calda. Una decisione bocciata dalla Cassazione che ha escluso ogni possibilità di compensazione, chiarendo altresì che – secondo la interpretazione della Corte EDU il letto deve essere considerato come un “ingombro idoneo a restringere” lo spazio utile minimo all’interno della cella senza possibilità di compensare le carenze interne della cella con la residua offerta di servizi o di spazi esterni alla cella. Di qui l’annullamento del provvedimento del Tribunale di Sorveglianza con rinvio per un nuovo calcolo dello spazio minimo.
A partire dal caso Torregiani ricordiamo che la Corte EDU ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 della Convenzione ritenendo che le condizioni della cella a disposizione del recluso non potesse essere inferiore a 3 m per 4.  Il Governo italiano era corso ai ripari per evitare il pagamento di pesanti sanzioni pecuniarie senza però intervenire sulle strutture esistenti, se non in minima parte, per carenza di fondi destinati all’edilizia carceraria per cui il problema del sovraffollamento è divenuto un problema strutturale che riproduce continuamente le medesime condizioni in cui vive il recluso per cui non è affatto diminuito il numero di ricorsi nei confronti dello Stato. Ci sia concessa una modesta riflessione: innanzitutto è di netta evidenza come la condizione carceraria non fa che aggiungere una ulteriore penosità a quella derivante al detenuto per la penosità della perdita della libertà. Se lo Stato non è capace di garantire al detenuto una condizione carceraria umana e rispettosa dei diritti dell’individuo, che non possono essere limitati anche in condizione di perdita della libertà, crediamo non ci sia altra soluzione che ricorrere alla detenzione se non nei casi di reati che comportino una forte componente criminale ricorrendo negli altri casi alle ipotesi alternative della libertà provvisoria o della detenzione domiciliare anche quando si tratta di detenuti stranieri e sempre che vi siano le condizioni per accoglierli in strutture idonee dove sia loro concesso di esercitare tutti i diritti legati alla dignità della persona quali ad es. anche la possibilità di ricevere visite dai propri familiari. Se non si persegue questo obiettivo, non potremo neppure ritenerci rispettosi del principio costituzionale che considera la pena come un momento delicato e insostituibile per la rieducazione del condannato. E poi non dimentichiamo come il carcere, così come oggi è strutturato, finisce per essere definito “scuola del crimine” ponendo in contatto giovani caduti nelle maglie della giustizia con criminali incalliti, che hanno esaurito ogni possibilità di redimersi. Purtroppo, in questi ultimi tempi, anche a causa della crisi economica che ha portato al contenimento delle spese destinate al settore giudiziario, va facendosi sempre più profondo il solco tra società civile e detenuti che vedono sbarrata ogni strada per il loro reinserimento nella società.

Fonte www.marinacastellaneta.it

Gennaio 2017

Nota a cura avv. E. Oropallo

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