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COSA SI INTENDE PER SPAZIO VIVIBILE IN CELLA?

Ancora una volta la Corte di Cassazione è chiamata a pronunciarsi sulla vicenda dello spazio minimo di cui il detenuto possa godere all’interno della cella. Lo fa con una recente sentenza la n. 38933/19 depositata il 23 settembre, con la quale interpreta in forma restrittiva l’interpretazione della CEDU sull’art. 3 della Convenzione e fatta propria dalla Cassazione. Vediamo la vicenda esaminata dalla Corte. Il ricorrente si duole del criterio applicato per la determinazione dello spazio vitale all’interno della cella, ritenendolo non conforme all’art. 3 CEDU, in quanto in quello disponibile era stato incluso anche quello occupato dal tavolo, limitativo della libertà di movimento. In effetti, rappresenta un principio giurisprudenziale ormai consolidato quello secondo cui “ai fini della determinazione dello spazio, pari o superiore a tre metri quadrati, da assicurare a ogni detenuto, dalla superficie lorda della cella deve essere detratta l’area occupata dagli arredi”. Dal computo, precisa la Cassazione, non possono essere esclusi gli arredi non fissi al suolo, quali il tavolo, le sedie e il letto singolo.
Tuttavia, prosegue la Corte, che il punto centrale del ragionamento è quello di stabilire se il detenuto abbia la possibilità di muoversi normalmente nella cella.
Nella fattispecie, gli arredi rimovibili, quali il tavolo e gli sgabelli, non sono idonei a restringere o connotare negativamente lo spazio disponibile della cella, tuttalpiù se si considera che concorrono alla definizione della vivibilità dell’ambiente.
Pertanto, la Suprema Corte ritiene il ricorso infondato e lo rigetta. Sinceramente, questa decisione non ci convince perché, che siano mobili o meno gli arredi della cella, si tratta di un’occupazione di spazio che viene sottratto al detenuto né si può ritenere – come fa la Corte – che tali arredi concorrano alla vivibilità dell’ambiente. Altra decisione sempre della Corte di Cassazione – 1° Sez. Pen. n. 49793 del 30.10.2017 ha sostenuto una tesi diametralmente opposta, ritenendo doversi detrarre dallo spazio quello occupato dagli arredi, compreso il letto, richiamando altra pronuncia della Cassazione (Cass. Sez. I, n. 52819 del 9 settembre 2016) laddove precisa che “per spazio minimo individuale in cella collettiva va intesa la superficie della camera detentiva fruibile dal singolo detenuto ed idonea al movimento, il che comporta necessità di detrarre dalla complessiva superficie non solo lo spazio destinato ai servizi igienici e quello occupato dagli arredi fissi ma anche quello occupato dal letto”. Vale il richiamo operato alla giurisprudenza della Corte EDU secondo cui “l’accertamento della sussistenza di uno spazio interno della cella inferiore ai 3mq., non determina, di per sé, violazione dell’art. 3 della Convenzione ma una forte presunzione di trattamento inumano e degradante, superabile solo attraverso l’esame congiunto e analitico delle complessive condizioni detentive e della durata di tale restrizione dello spazio minimo”, (sentenza della Grande Camera del 20.10.2016). La Corte Suprema pertanto accoglie il ricorso e dichiara l’annullamento dell’ordinanza con rinvio al Tribunale di Sorveglianza di Roma perché proceda ad un nuovo esame della domanda conformandosi al seguente principio di diritto: “per spazio minimo individuale del detenuto in cella va intesa la superficie della camera detentiva fruibile dal singolo detenuto occupante la cella ed idonea al movimento: con conseguente necessità di detrarre dalla complessiva superficie non solo lo spazio destinato ai servizi igienici e quello occupato dagli arredi fissi ma anche quello occupato dal letto”.

Ottobre 2019

Fonte: D&G

Nota a cura

Avv. E. Oropallo

Cosa si intende per spazio vivibile in cella

 

 

 

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