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Convivenza forzata in carcere: escluso il risarcimento

Il Tribunale di Napoli ha riconosciuto ad un ex detenuto presso il carcere di Poggioreale di Napoli un ristoro economico ritenendo inaccettabili le condizioni di detenzione. Secondo la Corte di Cassazione (Sez. VI Civ. ordinanza n. 23779 depositata l’11. Ottobre) “convivenza forzata” e “contiguità insopportabile” sono riferimenti troppo generici per parlare di detenzione inumana e riconoscere un risarcimento alla persona costretta dietro le sbarre. Le ragioni poste a base della decisione resa dal Tribunale di Napoli non sono condivisibili in quanto troppo generiche a tal punto da non assolvere affatto all’onere di motivazione in ordine allo specifico riscontro di condizioni di detenzione tali da violare l’art. 3 della CEDU. In particolare – argomenta la Cassazione – non risulta fornita alcuna spiegazione in ordine all’effettivo riscontro delle condizioni di presunto affollamento allegata dall’istante, alle eventuali fonti di conoscenza, agli elementi di fatto cui associare, finanche nella dedotta promiscuità, l’esistenza di condizioni di detenzione tali da non poter essere considerate conformi a umanità, quanto allo spazio vitale minimo individuale e alle connesse possibilità di movimento e di socializzazione – per cui – la Corte cassa il decreto perché affetto da motivazione solo apparente. E’ possibile che il decreto sia stato insufficentemente motivato ma ci lascia perplessi la decisione della Cassazione di ritenere insussistente, nel caso specifico, la violazione dell’art. 3 della CEDU a tener conto delle condizioni davvero inumane in cui versano le carceri italiane, e in particolare le condizioni di sovraffollamento in cui si trovano i detenuti a Poggioreale. Se la detenzione dovesse servire, anche e soprattutto, ad avviare un processo di reinserimento del detenuto nella società, ebbene si può solo parlare, per quanto riguarda le condizioni carcerarie italiane, che questo obiettivo è largamente fallito. Resta accertato che la detenzione, se non è accompagnata da un progetto serio di reinserimento che non c’è nei fatti, vuoi per carenza di fondi, vuoi per carenze organizzative e soprattutto scontrandosi con una mentalità di chi ritiene che il carcere debba servire per tener lontani i criminali (lo sono tutti?) dal mondo esterno, ebbene si viene a dimenticare il principio costituzionale che la privazione della libertà ha come obiettivo di proporre un reinserimento del detenuto nella società. Se già la privazione della libertà è la pena, non vediamo perché ad essa si debba accompagnare anche la privazione di quei diritti civili irrinunciabili della persona che devono essere rispettati anche in caso di privazione della libertà. Ricordiamo che anche qui in Italia in più di un’occasione i vertici della Corte di Cassazione ed anche delle Corti d’Appello territoriali hanno richiesto ai Magistrati di applicare la detenzione solo come estrema ratio per non rompere quel legame che unisce il detenuto alla società esterna, soprattutto sotto il profilo dell’affettività, ricordando che, proprio per le pesanti limitazioni cui sono sottoposte le visite dei familiari, sono sempre più diffusi i casi di violenza sessuale all’interno delle carceri. Se alcune forme di semi-libertà servono ad aprire una prospettiva, non vediamo perché il recluso non possa usufruire di questi benefici senza dover subire una situazione degradante, oltre alla privazione della libertà. Il fatto è che spesso chi giudica non ha mai avuto esperienza di quello che è oggi la struttura carceraria (ma in effetti si può dire che è sempre stato così), non rende possibile  la riconciliazione tra il detenuto e la società esterna.

Ottobre 2017

Nota a cura avv. E. Oropallo

CONVIVENZA FORZATA IN CARCERE. ESCLUSO IL RISARCIMENTO

 

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