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TERRORISMO E SICUREZZA

Ancora una settimana fa, o poco più, le strade di Barcellona si lordano del sangue di vittime innocenti del terrorismo «islamico». Già nella storia abbiamo numerosi esempi di terrorismo utilizzato come arma politica per piegare l’avversario. Senza voler andare troppo lontano, basta ricordare il nostro recente passato nazionale quando le frange estremiste di un presunto movimento rivoluzionario hanno combattuto la loro battaglia politica ricorrendo all’arma del terrorismo mirato a colpire i propri avversari politici, i detentori del potere politico ed economico, nell’illusione che il loro esempio potesse convincere le masse a sollevarsi contro i capitalisti accusati di sfruttare le altre classi sociali ed in particolare il proletariato urbano. Ebbene, anche questo fenomeno nel giro di pochi anni ebbe a fallire, spegnendosi un po’ per volta, non tanto per la repressione che colpì centinaia di militanti politici di sinistra, anche estranei al terrorismo, in quanto potenziali fiancheggiatori del terrorismo “rosso”, quanto perché fu fatta terra bruciata intorno a questi comunisti settari proprio da quel partito che pur si proponeva il cambiamento del sistema, con sistemi, però, del tutto legalitari. La ragione più profonda di questa sconfitta però va individuata nella capacità della società di isolare questo fenomeno, facendogli venir meno “il brodo” sociale del quale si alimentava. Il terrorismo islamico dei nostri giorni ha caratteristiche ben diverse da quelle del terrorismo italiano in quanto, innanzitutto, quest’ultimo aveva una caratteristica interna al sistema; in effetti, la sua azione mirava a cambiare la società italiana mentre quello “islamico” si è mascherato sotto le spoglie di una guerra di religione. L’Islam contro l’Occidente accusato di corrompere la società. E’ vero che la violenza del sedicente Stato islamico si esercita contro quelli che sono i simboli della società occidentale, come ad esempio i siti archeologici ma anche contro masse indifese portando la violenza indiscriminatamente in tutti i paesi dell’Occidente ed in particolare, non a caso, nelle metropoli europee. E’ falso però che si tratta di una guerra di religione, una guerra intesa a dare una supremazia politica ai paesi islamici anche perché la violenza si esercita anche nei confronti delle popolazioni dei paesi islamici che non accettano di aderire al movimento. Anzi, si può dire che i massacri compiuti dall’ISI in Medio Oriente nei confronti di popolazioni inermi sono ben più feroci degli attentati portati all’interno dell’Europa. Siamo certi che gli attentati in Europa non si fermeranno qui e che nessun paese europeo può dirsi sicuro e che la soluzione non può essere quella del maggior controllo delle nostre città, già ampiamente militarizzate proprio perché non siamo difronte ad una centrale terrorista. In effetti, non esiste un centro del terrore, anche se non si può nascondere che è in corso una guerra contro un esercito di individui che sono disposti anche al sacrificio in nome del profeta, che nei fatti è ben equipaggiato da alcuni paesi arabi che combattono, per interposta persona, la loro guerra contro altri paesi arabi “fratelli”. E’ questo un argomento che dovrebbe mettere fine alle analisi dei commentatori dell’ultima ora che parlano ancora di una guerra di religione. La realtà è diversa. Così come è avvenuto per il terrorismo politico in Italia, anche quello di marca islamista a livello mondiale può essere vinto solo se si vanno a colpire le cause che lo hanno determinato. E qui va fatto un discorso politico che coinvolge effettivamente tutta la società ed in particolare quei paesi, e qui mi riferisco alle grosse potenze capitaliste, che controllano i movimenti sociali ed economici a livello globale. A dispetto di tutte le misure di sicurezza che gli Stati stanno adottando, l’unica strada per vincere è quella di combattere le cause e non gli effetti del terrorismo islamico. Cause che affondano le radici in un sistema economico mondiale che produce enormi ricchezze per pochi e immense miserie per molti. Le responsabilità del capitalismo mondiale sono sotto gli occhi di tutti ma le società capitaliste non hanno alcuna voglia di riconoscere le proprie responsabilità per i conflitti sociali e militari che ancora scoppiano a livello mondiale. Storicamente, per comprendere meglio la realtà, bisogna fare qualche passo indietro nella storia. Il Medio Oriente non è stato mai un territorio di pace: già tra le due guerre mondiali questi paesi come il Libano o come la Siria o l’Iran o l’Iraq hanno visto l’intervento dei paesi occidentali interessati innanzitutto a spartirsi le loro ricchezze ed appropriarsi delle fonti di energia di cui essi sono ricchi come il petrolio che è servito ad arricchire le grosse società che controllano la produzione e la distribuzione del greggio, le famose “sette sorelle” (francesi, inglesi, americani e olandesi) che erano pronte a mettere in campo eserciti di mercenari per difendere il loro strapotere e le loro ricchezze o di porre in essere atti terroristici per tenere lontani dal mercato eventuali concorrenti  (si veda il caso Mattei). La sconfitta subita nella seconda guerra mondiale, cancellò anche il sogno tedesco di affacciarsi nella Valle dell’Eufrate e quello del capitalismo straccione, come quello italiano, che pur era riuscito ad accaparrarsi i pozzi petroliferi libici. Nell’epoca del neo-colonialismo, dopo la seconda guerra mondiale, il capitalismo anglo-americano, attraverso la collaborazione delle nascenti borghesie nazionali in Medio Oriente ma anche in Africa, ha controllato i fermenti sociali terrorizzando le popolazioni locali, spesso peggio di quanto facesse la società schiavista, infrangendo ogni sogno dei popoli africani di affrancarsi dal dominio capitalista. Ricordiamo come fini il tentativo di Lumumba di uscire da questo abbraccio fraterno del capitalismo franco-belga, rimasto vittima di un attentato “tribale”. La storia di questi paesi è intrisa del sangue dei massacri di milioni di uomini. Anche l’Algeria – paese sulle sponde del Mediterraneo – dovette conquistare col sangue la sua indipendenza dal capitalismo francese, senza dimenticare il sangue versato dal popolo vietnamita costretto a combattere una battaglia impari prima contro il capitalismo francese e poi del suo successore, l’imperialismo americano. L’affacciarsi nella storia di queste nuove entità statali, ha reso più difficile il controllo sociale e politico da parte del capitalismo, costretto a dividere le sue ricchezze con una crescente borghesia nazionale ma nello stesso tempo tale connubio è stato il sistema per mantenere le masse di milioni di persone in una situazione endemica di fame e sopraffazione. Negli anni 60 assistiamo a numerosi tentativi dei paesi del Corno d’Africa e Medio Orientali di emanciparsi dal capitalismo mondiale come ad esempio l’Egitto che, però, dopo la sconfitta sul campo con l’esercito ebraico, dovette venire a miti consigli e trattare con le potenze imperialiste la propria sopravvivenza. Non a caso anche gli ebrei, per costruire il loro Stato, dovettero combattere la dura resistenza del capitalismo inglese che in quel periodo era in affari con gli arabi per mantenere il suo potere indiscusso in quella parte del mondo. Ed anche gli ebrei, che lo si ricordi bene, dovettero far ricorso al terrorismo nei confronti dell’esercito inglese. La vittoria si poté ritenere certa solo quando l’imperialismo mondiale capì che la nascita di uno Stato ebraico poteva in quella parte del mondo essere utile per il controllo delle masse arabe. Senza parlare della Siria e dell’Iraq dove la fecero da padrone le “sette sorelle”, unite tra di loro per spartirsi le ricchezze di quei paesi. Ancora una volta, con la scusa di voler collaborare per un processo democratico in quei paesi, negli anni 90 gli Stati Uniti e la Nato hanno portato la guerra in Iraq con l’accusa, poi rivelatasi un falso costruito dai servizi segreti americani, che il despote iracheno era pronto ad usare armi chimiche. Anche la Siria è finita per essere coinvolta nella guerra innanzitutto perché aveva concesso alla Russia di avere delle basi navali nel proprio paese per cui non è stato difficile allargare il fronte di guerra in quanto la Russia ha appoggiato il governo di Damasco, mentre, con l’alibi di una nuova primavera araba, gli Stati Uniti hanno avuto buon grado ad appoggiare una frazione politica che combatteva la dinastia al potere. In questo quadro così tormentato è sorto un movimento che, sulla carta, dichiarava di combattere per la creazione di uno Stato islamico ma che nei fatti ha posto in discussione gli attuali equilibri in quella tormentata area geopolitica. Sembra che grazie al sacrificio del popolo curdo la Siria ed i suoi alleati stiano per sconfiggere una volta per tutte lo Stato islamico, riportando “la pace” in quella regione. Ma si tratta di una pace effimera che durerà solo qualche anno per assistere poi a nuove carneficine sempre in nome della democrazia e della pace. Quanti misfatti ancora in nome della democrazia siamo disposti a compiere? Quante menzogne siamo ancora disposti ad accettare dai nostri governanti? La sicurezza in Europa non ritornerà se non saremo capaci di riportare la pace in quei paesi, se i nostri governi non saranno capaci di sganciarsi dagli interessi dei grossi gruppi industriali che condizionano la loro politica, che fanno e disfanno alleanze al solo scopo di continuare a mantenere il loro potere. Anche le cosiddette missioni umanitarie volute innanzitutto dagli USA e accettate poi, nell’ambito della NATO, anche dai paesi europei sono destinate solo ad occupare militarmente questi paesi impedendo che in effetti i popoli possano da soli scegliere la strada di un reale sviluppo democratico. Ne è esempio l’occupazione dell’Afghanistan da parte dei paesi della NATO che, a distanza ormai di oltre venti anni, non è riuscito a darsi un governo stabile e democratico. Quanto altro sangue dovrà ancora scorrere? Questo dipende da come si intende affrontare le future sfide: o il sistema politico si dimostra capace a gestire il cambiamento mirando al miglioramento delle condizioni di vita in quei paesi combattendo i pregiudizi e le discriminazioni sociali (ipotesi che gli USA sono ben lontani dall’accettare) o davvero il nostro futuro sarà condizionato da vecchie e sperimentate operazioni diplomatiche o militari perché nulla cambi senza curarsi di un pianeta che sta pericolosamente imboccando una strada senza ritorno.

Agosto 2017

(Avv. E. Oropallo)

 

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