RIESPLODE IL CASO WHIRLPOOL
Nel mese di ottobre scorso, dopo mesi di tensione, il ministro dello sviluppo Stefano Patuanelli aveva rassicurato i lavoratori di aver ottenuto dalla direzione lo stop alle procedure di vendita e di licenziamento collettivo. Sembrava volesse aprirsi uno spiraglio per una soluzione diversa da quella prospettata dalla direzione aziendale che, comunque, non si era neppure in quell’occasione dichiarata favorevole al mantenimento della fabbrica, ma solo disposta a rinviare ogni decisione di qualche mese mentre il governo, illudendo ancora una volta i lavoratori, dava per certo che ci fossero le condizioni “per sedersi al tavolo delle trattative e provare a trovare una soluzione anche con un impegno del governo per lo stabilimento”. In quella occasione avevamo anche noi espresso dubbi sulla disponibilità della direzione aziendale di cambiare programma, deciso già dalla multinazionale che, fatti salvi gli effetti di un nuovo incontro con il governo ed i sindacati, si dichiarava disponibile ad un allungamento dei tempi della chiusura ma decisa a cessare la produzione nell’impianto nei prossimi mesi, ribadendo la non sostenibilità economica della produzione di lavatrici di alta gamma e indicando come unica possibilità di sopravvivenza la riconversione e la cessione. Ricordando appunto che “era stato stipulato un accordo preliminare per vendere lo stabilimento di Napoli ad un acquirente terzo”. Proprio alla vigilia dell’assemblea dei lavoratori, prevista per il 16 u.s., in un documento inviato alla autorità di Borsa americana, la multinazionale confermava lo stop della produzione che sarebbe invece continuata regolarmente nello stabilimento di Varese. I lavoratori e i rappresentanti sindacali, allarmati da questa dichiarazione, hanno chiesto al ministro Patuanelli di convocare le parti per chiedere alla direzione della multinazionale di rispettare gli impegni assunti con sindacato e istituzioni. Una vera e propria farsa, complice anche il governo, perché l’azienda non si è impegnata a tener aperto lo stabilimento, limitandosi a confermare che l’unica alternativa per tener in piedi la fabbrica era quella di una riconversione produttiva, ribadendo di voler cedere ad un terzo lo stabilimento. Oggettivamente, sul piano della concorrenza, il prodotto della fabbrica napoletana, pur essendo di alta qualità, da una parte non trova più acquirenti e dall’altra deve tener conto di una concorrenza agguerrita dei nuovi produttori mondiali che possono contare su una maggiore produttività e su prezzi di mercati più competitivi. In effetti, la crisi dell’azienda napoletana non è che un tassello della crisi mondiale. Si produce di più di quel che il mercato chiede e questo comporta un abbassamento dei prezzi che favorisce le imprese più “dinamiche” ossia quelle che riescono a produrre a costi inferiori. La soluzione prospettata dall’azienda sul piano economico è quella che farebbe ogni altra azienda italiana o straniera. Quello che non ci convince da una parte è la ricerca illusoria del governo di trovare una via d’uscita che preveda il mantenimento dell’azienda, che non è affatto compatibile, e dall’altra la posizione dei sindacati che si limitano a fare da pompiere per una lotta sindacale che interessa non solo i lavoratori della Whirlpool ma anche gli operai che lavorano nell’indotto. In una regione, come la Campania, che non vede da parte del governo alcun investimento che possa ridare un po’ di respiro alla crisi industriale nell’area napoletana che qui colpisce con maggiore violenza che altrove. Il declino industriale del Sud è sotto gli occhi di tutti anche perché molte aziende lavorano per conto delle industrie del Nord per cui la paralisi produttiva al Nord si riflette sui livelli occupazionali. Quali rimedi si possono adottare? E’ difficile fare previsioni anche perché il governo non ha alcun piano industriale per il Meridione. Ci sono settori di eccellenza, come nel comparto agro-alimentare, soprattutto in Puglia, mentre in Campania la devastazione delle campagne ha reso improduttive vaste zone del casertano, scoraggiando anche gli investimenti privati sia per la presenza di una forte aggregazione criminale che per l’assenza di infrastrutture (strade, innanzitutto) che rende più alti i costi di produzione. Se tutto ciò si accompagna ad una totale assenza di un piano di governo, il quadro è davvero preoccupante. L’unico settore che dà segni di ripresa è quello turistico grazie alle bellezze paesaggistiche della regione e per i tanti monumenti di una storia millenaria. Le risorse in questo settore potrebbero venire anche dai privati ma c’è bisogno di uno sforzo anche del governo che dovrebbe fornire strutture e infrastrutture che possono incrementare il turismo ma senza rovinare l’ambiente. Gli investimenti in questo settore potrebbero anche favorire altri settori come quello artigianale.
Non va dimenticato che l’Università napoletana potrebbe –attraverso investimenti mirati – creare posti di lavoro per i giovani laureati soprattutto nelle discipline scientifiche, come già sta accadendo, grazie anche alla collaborazione di altri atenei europei. Berlusconi e i suoi ministri erano dell’opinione che la cultura non crea ricchezza: al contrario, proprio la cultura in generale è il volano per creare nuovi settori produttivi e, dunque, più posti di lavoro. Il Sud d’Italia è ricco anche di risorse intellettuali che potrebbero cambiare il destino di questa parte d’Italia che potrebbe diventare uno dei protagonisti nell’economia di questa parte del Mediterraneo nella prospettiva di una maggiore integrazione tra i popoli del Mediterraneo. Ma, se non c’è alcuna iniziativa da parte del governo, l’alternativa sarà quella di una desertificazione di questa nostra parte del territorio nazionale una volta meta degli intellettuali che accorrevano da tutta l’Europa per godere del clima clemente e della bellezza dei luoghi. Se non ci saranno investimenti anche questa prospettiva di rilancio economico rischia di perdersi per strada.
29/01/2020