RIESPLODE IL CASO REGENI
Il caso Regeni rappresenta un vero test per la credibilità di un governo, quello italiano, che in nome dei buoni rapporti con l’Egitto e per portare in porto la commessa miliardaria di due fregate (per il momento), ha sempre parlato di una volontà di collaborazione delle massime autorità giudiziarie egiziane per risolvere questo caso. Tutte balle! Nel corso di una intervista fatta dal direttore del giornale “La Repubblica” al Presidente del Consiglio, Conte raccontava che “il governo non ha mai cessato di esercitare pressioni sull’Egitto per ottenere progressi tangibili nell’identificazione dei responsabili” – aggiungendo che – “l’Egitto prende atto del nostro processo e ci aspettiamo quindi ci siano tutti gli elementi per celebrare in Italia un processo credibile e giusto davanti a tutto il mondo”. Probabile, ma non certo, che questa convinzione non trovava alcun riscontro da parte dell’Egitto ma serviva al nostro governo solo per rassicurare l’opinione pubblica di una disponibilità che di fatto non c’era. Con un recente comunicato del Procuratore Generale del Cairo, l’Egitto ha confermato di non voler collaborare con le autorità italiane perché “i magistrati italiani hanno svolto le indagini in maniera scorretta”. Un duro comunicato di nove pagine nel quale per la prima volta si mette apertamente in discussione la qualità del lavoro dei magistrati di Roma. La procura egiziana esclude inoltre ogni responsabilità dei quattro ufficiali del National Security imputati a Roma del delitto Regeni, ritenendo che “partiti ostili all’Egitto vogliono sfruttare questo incidente per nuocere alle relazioni fra i due paesi”. Si rivela dunque del tutto fallace la posizione del governo, in particolare di Conte e del Ministro degli Esteri Di Maio, i quali avevano sempre assicurato che la vicenda Regeni non aveva alcun collegamento con i rapporti commerciali tra i due paesi. In effetti, questa tesi è confermata dalla circostanza che proprio alcuni giorni fa, il 23 dicembre, è stato consegnato da Fincantieri la prima delle fregate vendute agli egiziani. “Il 30 dicembre – scrive La Repubblica del 31 – è un vero e proprio certificato di morte di una cooperazione giudiziaria tra l’Italia e l’Egitto che solo il Presidente del Consiglio continua a considerare degna di essere definita tale”. Una bella grana per il Presidente del Consiglio che toglie ogni velo alle menzognere affermazioni di un Capo del Governo e di un Ministro degli Esteri che potrebbero porre rimedio a questa vicenda solo rassegnando le dimissioni per aver per mesi ingannato gli italiani e la famiglia dello sfortunato ricercatore. A questo punto il giornale – a firma del suo direttore – scrive che “Conte deve delle risposte e con lui il Ministro degli Esteri e l’intero governo. La memoria di Giulio e il paese non meritano giorni come quello di ieri!”. Non crediamo, ahimè, che questi due rappresentanti del governo saranno capaci di assumersi le loro responsabilità né l’opinione pubblica è in grado di condizionare le scelte di questi due politici. Lo sa bene anche la famiglia Regeni che ha preso le distanze dal governo, avendo deciso di presentare in Procura a Roma nei prossimi giorni un esposto contro il governo italiano, colpevole di aver venduto armi agli egiziani violando il divieto di “esportazione di materiale di armamento verso i paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni della violazione internazionale in materia di diritti”. E’ l’art. 1 della l. 185 del 1990 che lo prevede. Certo si tratta di una scelta estrema ma coraggiosa per svelare quali sono spesso le trame su cui si reggono i rapporti tra gli Stati. Non è la prima volta che questo accade: viviamo purtroppo in un mondo in cui le guerre sono sempre un buon affare per gli Stati; la produzione di materiale bellico non è stata messa in crisi neppure in questo periodo di pandemia e non crediamo neppure che il governo italiano sappia ritornare sulle decisioni già prese ma la dignità di una persona non può essere messa in discussione così come il lavoro che ha svolto e sta svolgendo la nostra magistratura. Se Al Sisi non aveva nulla da nascondere, perché non ha deciso di partecipare a questo processo che si svolge in un paese in cui, per fortuna, la magistratura ancora rappresenta un valore positivo in una società spesso lacerata dalle manovre politiche? Non sono pochi, nella storia di questo paese, i processi politici che si trascinano da anni senza che si riescano ad individuare né gli autori materiali di luttuosi avvenimenti né ad individuare le responsabilità politiche. Non vorremmo che anche questo processo facesse la stessa fine, lasciando l’amaro in bocca a chi sul piano umano sta soffrendo per la perdita di un proprio caro e a tanti cittadini che ancora danno fiducia a un sistema giudiziario che spesso, bisogna dirlo, non rende giustizia alcuna alle vittime e alle loro famiglie.
07/01/2021