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L’incerto futuro dei Balcani in Europa

L’INCERTO FUTURO DEI BALCANI IN EUROPA

Non è un mistero che i paesi balcanici, che già facevano parte della Repubblica Federativa di Jugoslavia, hanno iniziato da diversi anni a richiedere ufficialmente di entrare a far parte dell’UE. Nel febbraio del 2018 la Commissione europea ha presentato la nuova e attesa strategia verso i Balcani occidentali. Il documento, rilancia le prospettive di adesione all’Ue per i sei paesi dell’area (Albania, Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Macedonia, Montenegro, Serbia): per la prima volta da anni viene evidenziata una data concreta, anche se tutt’altro che definitiva, per il prossimo futuribile allargamento – a partire dai due paesi più avanti nel processo – Montenegro e Serbia. In particolare la Macedonia sembra che sia vicina ad uno storico accordo con la Grecia sulla questione del nome mentre la Bosnia-Erzegovina avrebbe nuove chance di diventare ufficialmente un candidato membro. La situazione più delicata resta quella del Kosovo, non riconosciuto da cinque stati membri dell’UE: posizione scomoda ribadita da una recente presa di posizione della Spagna, che ha cercato di escludere Pristina dal “club dell’allargamento”. Ai governi della regione vengono richieste misure importanti per rafforzare lo stato di diritto e tutti i diritti fondamentali, contrastare corruzione e criminalità organizzata, dare una risposta a scarsa competitività e disoccupazione. Tutte le questioni bilaterali, poi, devono essere chiuse prima di entrare nell’Ue: una disposizione che riguarda tutti i paesi dell’area, ma soprattutto le relazioni tra Belgrado e Pristina che, per la Commissione, devono essere risolte attraverso “un accordo di normalizzazione giuridicamente vincolante e di ampia portata”. Purtroppo, il referendum per l’uscita del Regno Unito dall’UE ha aumentato l’incertezza sul futuro europeo dei Balcani occidentali. La preoccupazione principale è che il dossier allargamento possa finire in fondo all’elenco delle priorità politiche europee, monopolizzate dai negoziati per l’uscita di Londra e dalla gestione di pressanti questioni sia interne che esterne. L’uscita del Regno Unito dall’Ue mette in discussione il potenziale di attrazione che l’Unione ha nei confronti di Paesi di cui tanto i governi che le opinioni pubbliche sono ansiose di ottenere benefici tangibili nel breve periodo e di sottrarsi all’influenza di altri attori internazionali, tra cui Russia e Turchia. Poiché già dall’ingresso della Croazia nel 2013 l’allargamento scontava una sostanziale perdita di slancio, in coincidenza con l’inizio delle commemorazioni per il centenario della Grande Guerra, la Germania ha ideato per il sud-est Europa il cosiddetto “Processo di Berlino” che simbolicamente avrebbe dovuto concludersi nel 2018. Dopo un primo incontro tenutosi a Berlino sollecitato dalla cancelliera tedesca Merkel con l’intervento di Austria, Francia e successivamente dell’Italia, nel luglio 2017 si è avuto un incontro a Trieste tra i sei paesi membri che sostengono il processo (ai quattro si sono uniti anche Croazia e Slovenia), anche con l’intervento della Commissione che ha dato fin da subito il pieno appoggio all’iniziativa. Nei Balcani occidentali i cambiamenti strutturali necessari per diventare stati membri richiedono tempo e determinazione. Negli ultimi anni i Paesi del Sud Est Europa hanno corso il serio rischio di riacquistare centralità nella politica europea solo per ragioni di sicurezza su questioni quali la lotta al terrorismo internazionale o la cosiddetta Rotta balcanica. Se i Balcani tornano ad essere trattati come la periferia instabile da gestire con l’approccio della politica estera tradizionale siamo di fronte alla fine del processo di allargamento. I Balcani occidentali completeranno il loro consolidamento democratico se vengono considerati a tutti gli effetti futuri Paesi membri da sostenere nel percorso di europeizzazione, tenendo dritta la barra dei diritti fondamentali. Nell’attuale quadro di incertezza rispetto agli sviluppi futuri dell’allargamento europeo il processo di europeizzazione guidato dalla Commissione costituisce la sola opportunità di trasformare i Paesi dell’area in democrazie funzionanti. Nel giugno 2018 l’UE decideva l’apertura dei negoziati per l’ingresso nell’Unione Europea di Albania mentre quelli con la Repubblica di Macedonia partiranno nel giugno prossimo. L’annuncio dell’accordo di compromesso è stato dato dalla Presidenza di turno bulgara dell’Unione Europea per dare “una chiara prospettiva europea” a Tirana e Skopje. L’accordo è stato raggiunto con la mediazione dell’Italia da sempre favorevole alla prospettiva di integrazione nell’Ue dei due paesi balcanici. Anche la Germania, alla fine, si è trovata concorde sull’accordo di compromesso per evitare una destabilizzazione dell’area. Se per l’Albania non ci dovrebbero essere problemi, ben più delicata si presenta l’ingresso della ex repubblica di Macedonia per la questione del nome in quanto la Grecia ha sempre contestato che la Macedonia (ex Jugoslavia) possa utilizzare questo nome che fa parte della storia della Grecia. Skopje vuole a tutti i costi entrare nell’Unione europea. Di qui la sua disponibilità a discutere molti aspetti che disturbano la Grecia, unico Stato della zona a essere sia membro della Nato sia della Ue. Per ora l’accordo ufficiale sul nome ancora non c’è, ma sono palesi gesti di buona volontà: da parte del governo macedone quello di ribattezzare da subito l’aeroporto già intitolato ad Alessandro Magno. Da parte greca invece l’impegno a facilitare l’ingresso di Skopje nell’Ue, a patto “che ogni segno di irredentismo sia inequivocabilmente tolto di mezzo”. Sì, perché – come sottolinea il quotidiano conservatore ellenico Kathimerini, vicino all’opposizione di centro-destra di Nuova Democrazia – elementi di irredentismo sono presenti anche nella Costituzione dell’ex Repubblica jugoslava di Macedonia. Già vi sono state diverse manifestazioni organizzate dai partiti di destra, e di estrema destra, come Alba Dorata, di protesta contro la politica del governo accusato di piegarsi alle richieste di parte macedone. Un’altra manifestazione è stata annunciata dai partiti dell’opposizione al governo Tsipras: appuntamento per il prossimo 4 febbraio in piazza della Costituzione ad Atene, il cuore della capitale greca. Il parlamento macedone ha ratificato nel frattempo a maggioranza dei voti, il disegno di legge sull’accordo con la Grecia per la ridenominazione del paese. A giugno Atene ha annunciato che è stato raggiunto un accordo con Skopje per rinominare il paese da “Repubblica di Macedonia” a “Repubblica della Macedonia del Nord”. L’accordo prevede anche la rimozione dei riferimenti al “popolo macedone” nella Costituzione della Macedonia e la rimozione del “Sole Vergina”, che appare sulla bandiera del paese prima del 1995, derivato da simboli di stato. Purtroppo, il referendum – come accennavamo- è stato politicamente un disastro per il premier macedone Zoran Zaev perché solo una minoranza non qualificata si è pronunciata a favore del cambio del nome. Il quesito del referendum in effetti non si limitava alla trasformazione del nome del paese in “Macedonia del Nord”, bensì chiedeva all’elettore se fosse stato anche favorevole all’adesione della Macedonia all’Unione Europea ed alla Nato, un cambiamento epocale che avrebbe intaccato interessi sovranazionali: con il cambio del nome la Grecia avrebbe dato il suo placet all’entrata della Macedonia del Nord nell’Unione Europea, come pure vi sarebbe stato il voto favorevole per l’adesione di Skopje alla Nato, cosa questa malvista a Mosca in quanto la Russia avrebbe visto ridursi la propria influenza nei Balcani e soprattutto farsi più reale la minaccia della Nato. Ora la strada per il cambiamento in “Repubblica di Macedonia del Nord” e la conseguente adesione a Ue e Nato appare in salita per Zaev e Tsipras. La cosa era in realtà nell’aria, tanto che il vicepremier macedone con delega agli Affari Europei, aveva affermato che il risultato del referendum sarebbe stato considerato valido anche senza quorum, perché alla fine la palla sarebbe passata comunque al Parlamento. All’inizio di quest’anno il Parlamento di Skopje ha approvato il cambio del nome del paese, che ora diventa Repubblica della Macedonia del Nord, in linea con l’accordo raggiunto con Atene. I deputati hanno approvato quattro emendamenti costituzionali, compreso il cambiamento di nome. La svolta è stata possibile grazie a un’intesa fra il partito socialdemocratico del premier Zaev e il piccolo partito di opposizione Besa, della minoranza albanese. Una volta approvato il cambiamento di nome a Skopje, toccherà al Parlamento ellenico ratificare l’intesa. Grande soddisfazione per il voto del parlamento di Skopje hanno espresso da Bruxelles l’Alto rappresentante Ue Federica Mogherini e il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg. La Mogherini ha parlato di “opportunità unica e storica” colta dai leader politici e dai cittadini macedoni per avanzare sulla strada verso l’Unione europea. Ora la parola passa al Parlamento greco che dovrebbe ratificare l’accordo intervenuto nel giugno scorso. Ma dopo le dimissioni del Ministro degli Esteri greco Nikos Kotzias, a seguito di un contrasto interno proprio sull’accordo raggiunto con la Macedonia, il percorso è tutto in salita. Certamente, se la Macedonia riuscirà ad entrare in Europa, non sarà facile che possa aderire alla NATO per la posizione assunta dalla Russia, contraria ad un allargamento della Nato nei Balcani che andrebbe a ridimensionare il ruolo della politica russa nei Balcani potendosi ritenere congelato anche l’ingresso della Serbia che – tra i paesi ex jugoslavi – è certamente quello che ha compiuto gli sforzi maggiori per raggiungere i parametri di democrazia richiesti dall’UE mentre, proprio il mancato raggiungimento di questi obiettivi, potrebbe essere un impedimento per l’adesione della Macedonia. Ma c’è dell’altro: la situazione in Grecia è tutt’altro che tranquilla. Dopo le dimissioni del ministro degli Esteri, il primo ministro Tsipras ha assunto anche l’incarico di capo della diplomazia. Non è affatto certo che il Parlamento greco ratifichi gli accordi raggiunti e sciolga il veto finora apposto all’entrata in Europa della Macedonia. Il partito di estrema destra in Grecia si è fatto promotore di portare in piazza il dissenso espresso contro questo accordo, ritenuto da molti come una resa alle condizioni della ex repubblica jugoslava. Certamente, Tsipras dovrà impegnarsi perché venga rispettato un accordo che è stato voluto anche dall’UE e d’altra parte non si capisce come possa essere sostenuta la tesi di un movimento nazionalista che, dietro la bandiera della tradizione ellenica, nasconde solo le sue mire a veder un cambiamento di regime simile a quanto avvenuto in Italia. Se questo è il quadro, dovrà l’UE intervenire per sventare queste manovre che potrebbero riaccendere ancora una volta i conflitti nazionalisti in un’area dove ancora è forte il nazionalismo.

Gennaio 2019

L’incerto futuro dei Balcani in Europa

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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