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LA GIUSTIZIA AI TEMPI DEL CORONAVIRUS

La paura del contagio è stata la grande occasione – come è stato scritto – per accelerare la deriva del processo, verso una vera e propria “dematerializzazione”. Col decreto del 17 Marzo il governo ha deciso lo svolgimento da remoto e cioè con video conferenza delle udienze per direttissima e degli interrogatori degli imputati detenuti al fine di evitare il pericolo del contagio, disapplicando, dunque, la norma garantista che prevede la compresenza fisica in un’aula di Tribunale di tutti i protagonisti. La soluzione adottata oggi dal governo, nel processo ordinario è eccezionalmente ammessa solo in caso di testimoni protetti, di persone in grave condizione di salute, di bambini o altri soggetti deboli chiamati a testimoniare. Pochi giorni dopo, però, l’8 Aprile, con l’emendamento di cui all’art. 12 bis del decreto “Cura Italia”, un decreto legge prevede infatti che l’eccezione diventa regola, anche oltre i limiti dell’emergenza, laddove è intuibile che l’udienza da remoto non è un processo che possa garantire non sono la forma ma anche la sostanza del processo. Né ci si può accontentare di un processo virtuale, un vero e proprio caso di clonazione della realtà. Non c’è neppure bisogno di evocare i principi cardine del processo che sono quelli dell’immediatezza, dell’oralità e della pubblicità dello stesso e nemmeno l’art. 6 della CEDU che prevede la pubblicità delle udienze. Come è stato giustamente rilevato “solo la compresenza fisica del giudice, dell’imputato, del PM e dei difensori garantisce di non trovarsi davanti ad una parvenza di processo”. Per il processo civile, come ha scritto il Presidente dell’Unione Nazionale Camere Civili – l’avv. Antonio Notarstefani – “è sgradevole al giorno d’oggi assistere ad una così lunga sospensione dell’attività giudiziaria: sono anni infatti che è stato introdotto nell’ambito civile il processo telematico, una modalità che consente la trattazione scritta del processo che avrebbe permesso di ridurre l’impatto delle emergenze” aggiungendo che “la presenza fisica degli avvocati in udienza, di norma, le assicura meglio di quanto non possa fare una trattazione da remoto, perché permette al legale di percepire quella che da lontano può sfuggire…”. “Non si può obbligare i cittadini e gli avvocati che li rappresentano a rinunziare a quelle garanzie previste dalla legge che possono essere sospese solo per un limitato periodo di emergenza per cui qualsiasi riforma di stampo autoritario cadrebbe in un’aula del Quirinale o a Strasburgo”. Civilisti e penalisti con una nota congiunta hanno lanciato un appello alla mobilitazione. “L’avvocatura – scrivono il Presidente dell’UCPI e UNCC – è chiamato a contrastare con la forza delle proprie iniziative l’intervento di ANM – sindacato dei Magistrati – volto palesemente a sollecitare le spinte giustizialiste presenti nella maggioranza governativa” che in un comunicato invece chiedeva di mantenere in vigore quell’impianto del processo remoto perché “è l’unica risposta adeguata alla ripresa dell’attività negli uffici giudiziari”. Insomma dovremmo sacrificare le garanzie poste in difesa del giusto processo per rendere i processi più rapidi? Scrivono ancora i Presidenti delle due associazioni che le udienze istruttorie comportano “implicazioni devastanti e i diritti processuali non possono essere compressi in modo così determinante a causa della pandemia”.  Nel dibattito è intervenuto anche il Presidente della ANM  Luca Paniz, il quale difronte ai timori sollevati dall’Avvocatura replica definendo prive di fondamento le polemiche, pure giustificate dalla richiesta della corrente di Davigo all’interno del CSM “di riflettere sulla possibilità di rendere stabili alcune delle novità introdotte dal decreto Cura Italia”, assicurando che “si tratta di misure strettamente legate a questa fase. Tale legislazione dunque non potrà divenire la legislazione dell’ordinario e il contraddittorio nella formazione delle prove non potrà fare a meno della compresenza dei soggetti nel processo”. Assicurazione che non è servita a calmare gli animi perché “il processo penale non può essere celebrato in forma smaterializzata” ha  ribadito il Presidente dell’UCPI, il quale però aggiunge come, “malgrado siano anni che l’avvocatura ha richiesto la informatizzazione del processo penale, inteso come accesso da remoto ai fascicoli e agli uffici, che non è stato mai consentito, improvvisamente ora – aggiunge – si pretende di informatizzare l’udienza e di smaterializzare l’aula”. E così il processo da remoto si trasformerebbe in una farsa, un simulacro di quello “giusto” previsto dalla Costituzione. Anche la Presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia ha ritenuto opportuno far sentire la propria voce nel dibattito giudiziario e politico italiano partendo da quell’unica “bussola” in grado di indicare la rotta, la Costituzione, che, sottolinea la Presidente, “non contempla un diritto speciale per i tempi eccezionali e ciò per una scelta consapevole, ma offre anche la bussola anche per navigare per l’alto mare aperto”, ricordando che “La Repubblica ha attraversato varie situazioni di emergenza di crisi, dagli anni della lotta armata a quelli più recenti delle crisi economiche e finanziarie e tutti sono stati affrontati senza mai sospendere l’ordine costituzionale, ma ravvisando al suo interno gli strumenti idonei a modulare i principi costituzionali in base alle specifiche contingenze”, con un richiamo “ alla collaborazione istituzionale e nello specifico a un impegno corale, con l’attiva leale collaborazione di tutte le istituzioni compreso il Parlamento, Governo, Regioni, giudici. Questa cooperazione è anche la chiave per affrontare l’emergenza”. Una dichiarazione che conferma la preoccupazione degli avvocati, ma anche dei giuristi che hanno a cuore la Costituzione, che ritengono che il processo da remoto non solo debba essere limitato al solo periodo dell’emergenza ma nel rispettare anche in questa fase le garanzie costituzionali. “L’obiettivo è chiaro: riprendere i processi veri, nelle aule e non più nelle claudicanti piattaforme telematiche, come gli avvocati chiedono con insistenza” (Il Dubbio” del 29.4.) ricordando che “la progressiva dematerializzazione dei luoghi della giustizia allontana il cittadino dalla percezione anche fisica che esiste un posto dove “la legge è uguale per tutti”” dichiara in un’intervista a “La Repubblica” il GIP Letizio Magliaro. Non è un caso che nel corso dei secoli, è rimasta sostanzialmente intatta la struttura del processo che prevede le medesime caratteristiche di oralità, di pubblicità e della compresenza di tutti i soggetti del processo, senza le quali viene a cadere qualsiasi fiducia nei confronti della giustizia. Insomma, il momento emergenziale non può e non deve tradursi in un pericoloso stravolgimento dei principi che regolano il giusto processo e pertanto “la ripresa dell’attività giudiziaria dovrà essere uniformata ai richiamati principi nella misura più ampia possibile garantendo, attraverso una corretta ed adeguata organizzazione e l’utilizzo di presidi sanitari, la salute di tutti gli operatori della giustizia e dei cittadini che ne sono destinatari” come ha scritto il Presidente del CNF.

La giustizia ai tempi del coronavirus

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