LA CRISI NEL REGNO UNITO DOPO LA BREXIT
Nelle settimane scorse i rifornimenti sono stati messi in crisi in Gran Bretagna per mancanza di camionisti che ha provocato la chiusura di diverse catene di ristorazione, lasciando vuoti per settimane gli scaffali dei supermercati. Dopo gli scaffali vuoti e i rincari della merce, ora a scarseggiare è la benzina. Il governo britannico ha deciso di concedere fino a 10.500 visti di lavoro temporaneo per rispondere alla carenza di camionisti ma nel Regno Unito servono almeno altri 100.000 camionisti, secondo le stime del settore che non si trovano perché a fare questo lavoro sono soprattutto cittadini dell’Est Europa che dopo la Brexit hanno fatto ritorno in patria. Si fa fatica a trovare personale anche per altri settori, come quello della macellazione ed i ritardi della logistica che hanno contribuito a far lievitare i prezzi. Si preannuncia quindi quello che la stampa britannica ha già ribattezzato “un inverno dello scontento”. C’è scarsità anche di materia prima ed in particolar modo anche del gas che porterà all’aumento delle bollette. Nel frattempo si va riacutizzando anche la crisi politica. Il partito unionista democratico (DUP) ha minacciato di uscire dal governo di unità nazionale realizzato nell’Irlanda del Nord se non sarà modificato notevolmente il protocollo sull’Irlanda del Nord che “minaccia l’integrità economica del Regno Unito”. In effetti il protocollo è stato pensato per mantenere un confine aperto tra Irlanda del Nord e Repubblica di Irlanda, evitando di creare una dogana rigida che spaccasse l’isola. Tuttavia, la diretta conseguenza è stata la creazione di una frontiera più rigida tra Belfast ed il resto del Regno Unito. Nello stesso tempo il Regno Unito ha rinviato al 2022 l’introduzione dei controlli sulle merci in arrivo dall’UE, previsti dagli accordi post Brexit con Bruxelles e che in parte sarebbero dovuti entrare in vigore a partire dal 1° ottobre. Si tratta di un’altra mossa unilaterale di Londra dopo la sospensione sui controlli sulle merci importate dalla Gran Bretagna all’Irlanda del Nord. Altra spina nel fianco è la insanabile frattura di Londra con la Scozia che minaccia ancora una volta di chiedere un referendum sull’indipendenza entro la fine del 2023, nonostante la forte opposizione di Londra. La Sturgeon, che guida il partito nazionale scozzese, ha detto che “il caso dell’indipendenza è forte”. Il Parlamento britannico a Londra, che mantiene i poteri su competenze come la politica estera, l’immigrazione e la difesa, ha escluso di concedere il permesso di tenere un referendum ma la premier scozzese conta su un aumento del sostegno visto che la maggioranza degli scozzesi ha votato per rimanere nell’UE nel divisivo voto sulla Brexit del 2016 con una maggioranza schiacciante del 62%. La leader pro Europa ha portato il suo partito ad aumentare i seggi in Parlamento nelle ultime elezioni nonostante i sondaggi non fossero clementi con lei. Lo Scottish National Party ha ottenuto il 47,7% dei voti nei collegi uninominali e il 40,3% in quelli regionali. Questi numeri hanno permesso al partito indipendentista ed europeista di ottenere 64 seggi ad una sola distanza dalla soglia della maggioranza fissata a 65 dando poi vita ad un governo di coalizione col partito verde scozzese. I punti forti della Scozia sono i pozzi di petrolio nel Mar del Nord – che però fanno gola anche al governo inglese –ed i rapporti commerciali dei paesi con l’UE che non si sono mai ridotti per cui non si può escludere una vera frattura tra la Scozia e il resto del paese come avvenuto in Spagna dove il partito indipendentista recentemente ha formato un governo regionale con una larga maggioranza senza abbandonare l’idea di staccarsi dal resto del paese. Probabile che nei prossimi anni assisteremo ad un cambiamento istituzionale che privilegerà una più forte componente regionalista e l’abbandono dei nazionalismi tradizionali e questa potrebbe essere anche l’occasione per portare in porto anche la riforma dell’UE in senso federale.
Ottobre 2021
La crisi nel Regno Unito dopo la Brexit