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Sono da equipararsi l’apolide “di fatto” a quello “di diritto”

Nel 2016 veniva emesso nei confronti di un soggetto, già cittadino jugoslavo, decreto prefettizio di espulsione in virtù della mancata regolarizzazione della presenza dello stesso sul territorio nazionale. In particolare, in detto decreto si giustificava l’ordine di espulsione evidenziando l’insussistenza delle condizioni per il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari o ad altro titolo, nonché la ricorrenza dei presupposti per considerare l’uomo come persona a rischio di fuga. L’interessato, ovviamente, proponeva opposizione affermando di essere entrato in Italia nel 1986, quando era ancora cittadino jugoslavo, e di non essere mai ritornato nel corso di questo periodo né in Jugoslavia né in Bosnia, suo luogo di nascita. In questo modo, egli assumeva di aver acquisito i presupposti per la dichiarazione di apolidia tanto che -a riprova della genuinità delle sue argomentazioni- tale situazione aveva impedito l’esecuzione di tre precedenti decreti di espulsione, l’ultimo dei quali era stato oggetto di opposizione che era stata accolta dal giudice di pace competente il quale aveva riconosciuto la sua inespellibilità. Ma l’ufficio del Giudice di Pace interessato dell’impugnazione del 2016 respingeva le difese dell’uomo rilevando che l’opponente, pur essendo in possesso dei requisiti per la dichiarazione di apolidia, non aveva mai fatto richiesta in tal senso nonostante il proprio ingresso in Italia risalisse al 1986. Non rimaneva, pertanto, che il ricorso in Cassazione il quale, puntualmente, veniva depositato dall’interessato al fine di ottenere giustizia. Il concetto di apolidia. Gli Ermellini, innanzitutto, ricordano come per le Sezioni Unite della Suprema Corte, sin dal 2008, la nozione di apolide è quella di colui che si trovi in un Paese di cui non è cittadino, provenendo da un altro paese del quale ha perso formalmente e sostanzialmente la cittadinanza. Pertanto, ricordano gli Ermellini, ogni individuo che soddisfa questi requisiti, è da considerarsi apolide come nel caso di specie. Ma la Suprema Corte va oltre rammentando come, a tal fine, il riconoscimento giudiziale dello status di apolide abbia natura dichiarativa e non costitutiva: in questa prospettiva, dunque, anche quando lo status di apolide non sia stato ancora oggetto di accertamento giudiziale ma i suoi presupposti sono inequivocabilmente emersi dalle verifiche amministrative e/o documentali svolte dalle autorità competenti, non può non riconoscersi rilievo alla condizione di un soggetto «che si trova in un Paese di cui non è cittadino proveniente da altro Paese del quale ha perso la cittadinanza». Peraltro, nel caso in esame, è emerso dagli accertamenti svolti alle autorità pubbliche competenti, sia nello Stato italiano che nello Stato di origine, una condizione di ‘apolidia di fatto’, rilevata ed accertata incidentalmente anche dal giudice di pace competente in un provvedimento precedente che, pertanto, non può rimanere privo di effetti giuridici. A questo punto, la Suprema Corte verifica la percorribilità nei suoi confronti di un provvedimento di espulsione ex art. 13 e ss. del d.lgs. n. 286/1998. A tal proposito, gli Ermellini ricordano che l’art. 31 della Convenzione di New York del 1954 prevede un generale divieto di espulsione dell’apolide, facendo salva l’ipotesi in cui la decisione sia giustificata da motivi di sicurezza e di ordine pubblico. Si tratta -precisa la Suprema Corte- di una disposizione che rivela una precisa intenzione degli Stati contraenti di limitare il potere loro riservato dal diritto internazionale di espellere in qualsiasi momento, sulla base della normativa interna, uno straniero precedentemente ammesso sul territorio nazionale. La norma di garanzia sancita dall’art. 31 della Convenzione deve applicarsi in via analogica anche a coloro i quali si trovano in una condizione di “apolidia di fatto”. In entrambi i casi deve operare la medesima ratio che sottostà al riconoscimento dello status di apolide nel diritto internazionale, così come recepito dal legislatore italiano. Tale equiparazione della condizione di diritto a quella di fatto, ai fini della limitazione del potere di espulsione dell’apolide, trova un solido fondamento nel rilievo costituzionale attribuito alla tutela universalistica della persona umana. Inoltre, la Suprema Corte rileva che nel caso in esame entrambi i provvedimenti espulsivi non sono stati ammessi sulla base del riscontro, da parte dell’autorità prefettizia, della pericolosità sociale dell’uomo ma sul presupposto della irregolarità della sua presenza e della permanenza nel territorio nazionale. Per tutti questi motivi, la Cassazione, accogliendo la richiesta del Procuratore Generale, afferma il seguente principio di diritto, secondo cui l’art. 31 della Convenzione di New York, che prevede la non espellibilità di un apolide se non nei casi di documentata sussistenza dei motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico, si estende in via analogica anche alle situazioni di apolidia di fatto. Una sentenza garantista della Suprema Corte che ancora una volta serve a fermare i tentativi dell’autorità amministrativa di forzare la norma di diritto. Una sentenza che è un segnale che non si possono stracciare i trattati internazionali che prevedono un preciso diritto al soggetto apolide di restare nel territorio in cui egli svolge la sua attività, ha una vita familiare, integrato nel tessuto sociale del paese di accoglienza.

Fonte: D&G

Giugno 2019

Sono da equipararsi l’apolide di fatto a quello di diritto

 

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