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La valutazione degli spazi carcerari in relazione ai principi della Convenzione EDU

In tema di compatibilità degli spazi carcerari con i principi espressi dall’art. 3 della CEDU, una superficie calpestabile di tre metri quadrati per ogni detenuto in una cella collettiva rappresenta la soglia minima pertinente ai fini della valutazione delle condizioni carcerarie, in caso di sovraffollamento grave. Così ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. VI Penale, sentenza n. 1562/19; depositata il 14 gennaio. Quanto all’ individuazione dei criteri e delle modalità di computo dello spazio minimo individuale, secondo un orientamento sostanzialmente unanime di legittimità, i tre metri quadrati – al di sotto dei quali, se non emergono i diversi e significativi aspetti “compensativi” di cui si è detto, deve ritenersi la violazione dell’art. 3 CEDU – vanno intesi come “spazio utile al fine di garantire il movimento del soggetto recluso nello spazio detentivo”, il che esclude di poter inglobare nel calcolo dello stesso lo spazio occupato dai servizi igienici, destinati a funzioni diverse da quelle correlate al movimento e, in ragione dell’ingombro che ne deriva, quelle strutture tendenzialmente fisse, come ad esempio il letto a castello, che costituiscono un sicuro impedimento al movimento del detenuto (ex multis, Sez. 1, n. 41211 del 26/05/2017). Il riferimento dei tre metri quadrati è relativo quindi alla superficie calpestabile e che per spazio minimo in cella collettiva va inteso lo spazio in cui il soggetto detenuto abbia la possibilità di muoversi (Grande Camera, 20 ottobre 2016, Mursic c. Croazia). Dove la superficie così calcolata scenda al di sotto dei tre metri quadrati, ciò non integra di per sé la violazione del parametro convenzionale bensì la “strong presumption” di trattamento contrario ai contenuti dell’art. 3 CEDU a determinate condizioni bilanciabile (tra tante, Sez. 1, n. 39294 del 03/07/2017). La Grande Camera del 15 dicembre 2016 ha ribadito che uno spazio personale inferiore a 3 mq. in una cella collettiva fa sorgere una “presunzione, forte ma non inconfutabile, di violazione” dell’art. 3 CEDU che “la presunzione in questione può essere confutata in particolare dagli effetti complessivi degli altri aspetti delle condizioni di detenzione, tali da compensare in maniera adeguata la mancanza di spazio personale“, quali cumulativamente “la durata e l’ampiezza della restrizione, il grado di libertà di circolazione e l’offerta di attività all’esterno della cella, nonché del carattere generalmente decente o meno delle condizioni di detenzione nell’istituto“. Questa la sentenza emessa dalla Suprema Corte. Come è stato spesso ribadito dalla CEDU e confermato dalla Cassazione, la privazione della libertà è la pena comminata che lascia integri – pur nella condizione di recluso – i diritti personalissimi del detenuto che non possono subire coercizione alcuna. Ci vien da ricordare il carattere non punitivo della pena e il diritto del detenuto alla vita, alle cure mediche, al benessere fisico e mentale. Davvero ci si trova senza fiato quando la giurisprudenza afferma che è sufficiente per il recluso uno spazio minimo calpestabile non inferiore a tre metri. Insomma, per un continente che vuole essere un faro di civiltà, per gli altri popoli della terra, è davvero penoso che si possano ritenere accettabili le condizioni della reclusione con uno spazio così ristretto.

Fonte
D & G

Gennaio 2019

La valutazione degli spazi carcerari in relazione ai principi della Convenzione EDU

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