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IL DIRITTO D’ASILO E IL TRATTATO DI DUBLINO

La relazione ha preso le mosse dall’originaria Convenzione di Dublino sottoscritta dai paesi membri (all’epoca CEE) per determinare lo Stato competente a conoscere della domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri della CEE per ottenere lo status di “rifugiato politico” nella consapevolezza di dare ad ogni richiedente asilo la garanzia che la sua richiesta fosse esaminata da uno Stato membro e per evitare che i richiedenti fossero inviati da uno Stato membro ad un altro senza che nessuno di questi Stati si riconoscesse competente per l’esame della domanda d’asilo. Si richiamava in quella Convenzione espressamente sia la Convenzione di Ginevra del 28.7.1951 che il protocollo di New York del 31.1.1967 relativo allo status dei rifugiati. All’art. 3 si precisava che gli Stati membri si impegnano affinché la domanda d’asilo presentata alla frontiera o, nel rispettivo territorio, sia esaminata dallo Stato membro nel quale per la prima volta lo straniero acceda. Anche se, quando il richiedente asilo (art. 6) ha varcato irregolarmente la frontiera di uno Stato membro, e se il suo ingresso attraverso detta frontiera può essere provato, l’esame della domanda è di competenza di questo Stato. In pratica, a parte i casi in cui lo straniero entri con regolare visto in uno Stato aderente all’UE, nel caso di ingresso illegale è il primo paese nel quale entra ad essere competente ad esaminare la sua domanda. Per fare un esempio, oggi chi entra in Italia obbliga lo Stato italiano ad esaminare la sua richiesta. Il problema certo oggi è cresciuto enormemente perché non si immaginava una situazione come quella attuale ma, pur nelle mutate condizioni la norma originaria resta sempre la stessa. L’art. 9 prevede che, anche se non competente in base ai criteri previsti, ogni Stato membro può esaminare la domanda per motivi umanitari, in particolare di carattere familiare o culturale, a condizione tuttavia che il richiedente lo desideri. E’ in base a questa norma che la Germania ha ritenuto di prendere in considerazione le domande di asilo pervenute dai profughi siriani, malgrado essi fossero sbarcati in Grecia. A “titolo umanitario” si parlò all’epoca, quando si ebbero i primi sbarchi sulle coste italiane dei profughi albanesi che scappavano dalla prigionia del regime autoritario albanese. Ovviamente, nel caso di ingresso illegale in un paese membro, se non si vuol tener conto dell’eccezione, il Paese cui viene presentata la domanda, se accerta che l’ingresso è avvenuto in altro paese UE, ha il diritto di rinviare il richiedente nel paese di primo ingresso. Tale convenzione veniva successivamente sostituita da un vero e proprio regolamento (CE) n. 343/2003 del Consiglio del 18.2.2003 il quale – pur lasciando l’impostazione della convenzione – stabiliva più precise regole di garanzia a favore dei richiedenti cui va data ogni informazione per iscritto in una lingua che possa comprendere, per l’applicazione del regolamento, e degli effetti che ne seguono. Il primo criterio da utilizzare per individuare il paese competente ad esaminare la domanda resta sempre quello in cui il richiedente asilo ha presentato domanda di asilo per la prima volta in uno Stato membro. E’ importante dunque che venga identificato con precisione il paese membro nel quale il richiedente per la prima volta faccia la domanda. Se i paesi membri, come l’Italia, non rispettano questa norma è evidente come tutto il sistema finisca per collassare. Recentemente l’Italia ha ricevuto una pressante richiesta da parte dell’UE di prendere le risposte di chi era sbarcato sulle coste italiane per poter in seguito identificare i migranti che, pur sbarcati in Italia, si trovassero in altri paesi UE. L’art. 10 specifica che tale obbligo di esaminare la domanda cessa 12 mesi dopo la data di attraversamento clandestino della frontiera per cui si fa riferimento ad altri criteri per individuare lo Stato competente ad esaminare la richiesta, sempre avendo questi criteri carattere residuale rispetto al primo. Il regolamento prevede anche la cd. clausola umanitaria che rispecchia l’analoga possibilità prevista dalla Convenzione di Dublino.  Il regolamento per velocizzare i procedimenti dispone (art. 18) che lo Stato membro competente procede alla verifica e alla delibera sulla richiesta entro due mesi a decorrere dalla data in cui ha rilevato la richiesta prevedendo, in caso contrario (c. 7/18) che la mancata risposta comporta l’obbligo di prendere in cura la persona. Nel corso della relazione si è esaminato successivamente la direttiva rimpatri (2008/115/CE) e la pronuncia successiva della Corte di Giustizia Europea che ha ritenuto la illegittimità comunitaria del disposto dei commi 5 ter e 5 quater dell’art. 14 T.U. immigrazione, mettendo a rischio il sistema espulsivo italiano per cui il Governo è stato costretto ad intervenire per conformare la disciplina italiana agli obblighi imposti dalla norma europea, modificando alcune parti della legislazione in vigore, lasciandone però intatto l’impianto complessivo con il risultato di avere un adeguamento incompleto alla normativa europea e, sotto alcuni profili, del tutto carente essendo del tutto evidente che il legislatore non ha voluto adeguarsi al sistema denunciato dalla direttiva che privilegia la partenza volontaria in luogo dell’esecuzione contraria del rimpatrio, rilevando la prima ipotesi fatto del tutto eccezionale. Senza rinunciare all’utilizzo dello strumento penale nell’ambito delle procedure di rimpatrio, predisponendo una serie di nuovi reati. Il 26.6.2015 entra in vigore il regolamento europeo noto come “Dublino III”, che modifica i meccanismi con cui l’UE stabilisce a quale Stato membro competa l’esame di una richiesta d’asilo. Il regolamento è stato adottato da tutti gli Stati membri ad eccezione della Danimarca. Il primo pilastro di questo sistema è l’EURODAC, una banca dati centrale in cui vengono registrate le generalità di chiunque attraversi irregolarmente le frontiere di uno Stato membro, in particolare le impronte digitali. L’altro pilastro è costituito dalla garanzia che almeno uno degli Stati membri prenda in carico la domanda. L’applicazione di questa norma è diventata un contorto percorso ad ostacoli per chi cerca protezione: famiglie separate, persone lasciate senza mezzi di sostentamento, o addirittura detenute, lungaggini burocratiche e rimpalli tra uffici e Stati che rendono inesigibile il diritto d’asilo impedendo la mobilità dei richiedenti asilo all’interno dell’UE, con un impatto fortemente negativo sulla vita dei rifugiati. Tra i cambiamenti principali, oltre ad una definizione più forte del “familiare” da cui il richiedente non può essere separato, si prevede anche che se il richiedente asilo presenta ricorso contro l’ordine di trasferimento in altro Stato UE ritenuto competente, ha diritto di aspettare l’esito prima di essere trasferito. Una prima criticità del regolamento, per quanto riguarda l’Italia è che essa deve occuparsi sia delle domande dei migranti rimandati in Italia essendo sua la competenza ad esaminare la loro domanda sia il trasferimento dei migranti in altri paesi dove precedentemente sono stati identificati attraverso le impronte digitali. Per farsi carico di queste situazioni, già la Convenzione di Dublino prevedeva la creazione in ogni paese membro di un’autorità che tenesse i rapporti con le autorità di altri Stati membri. Purtroppo l’autorità istituita in Italia – l’Unità Dublino – è composta da un unico ufficio centrale istituito presso il Ministero che si deve occupare di tutti i casi a livello nazionale. Ciò causa lunghi ritardi anche perché chi desidera avere informazioni non può contattare direttamente l’Unità Dublino che non dispone neppure di un front-office per cui gli interessati sono costretti a rivolgersi ad un intermediario o si rivolge ad assicurazioni e ONG locali. Tra l’altro la maggior parte di queste domande proviene da persone che dopo aver completato la procedura per ottenere l’asilo in Italia si erano trasferite in altro paese alla ricerca di migliori opportunità di lavoro ma non essendo cittadini italiani non hanno la possibilità di soggiornare o di dimorare in altro Stato membro. Il regolamento Dublino, paradossalmente, applicatosi a quanti hanno ultimato con successo la procedura, non ha altro effetto che ostacolare l’integrazione dei rifugiati in Europa, costringendo le persone a restare per sempre in uno specifico Stato membro che è quello in cui sono arrivati. Ed è questo il motivo per cui i migranti si rifiutano di essere identificati nel nostro paese, volendo essere liberi di spostarsi in paesi, come la Germania o il Nord Europa, dove esistono ancora migliori possibilità di lavoro. E non sono i soli a pensarlo se – accanto ad una forte migrazione irregolare – l’Italia sta soffrendo culturalmente perché è cresciuto il flusso anche degli italiani – soprattutto quelli dotati di scolarità superiore – che prendono la strada per l’estero per trovare un lavoro migliore. E’ questo il motivo per cui alcuni Stati – come la GB – stanno cercando di limitare per i lavoratori immigrati i benefici previsti nel loro sistema previdenziale e assistenziale, negandolo, anche se appartenenti ad un paese UE. C’è da aggiungere anche che la mancanza di informazione, di condizioni di accoglienza dignitose e il ricorso anche alla detenzione stanno ponendo in crisi ancora di più il Sistema Dublino anche se l’UE raccomanda ai Governi di adottare misure meno coercitive del carcere. La rigidità del Sistema Dublino spinge i richiedenti asilo a muoversi continuamente in Europa in cerca di protezione, piuttosto che fermarsi in un posto solo, nel tentativo di aggirare un sistema percepito poco sicuro. Molte critiche al sistema sono venute sia dall’Alto Commissariato delle N.U. per i rifugiati come da numerose Organizzazioni non governative le quali chiedono che in questa fase di trasposizione delle norme comunitarie nei sistemi giuridici nazionali gli Stati non perdano di vista i valori fondanti dell’UE enunciati nell’art. 2 della sua costituzione: il rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e dei diritti umani, nell’ottica di garantire i diritti e la protezione effettiva di persone già gravemente colpite da guerre e persecuzioni.

Avv. Eugenio Oropallo

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